Maigret è il mio gemello
Intervista a Georges Simenon di Francis Lacassin
Georges Simenon (1903-1989) fu uno scrittore belga di lingua francese, noto al grande pubblico per avere inventato il personaggio del commissario Maigret. La tiratura complessiva delle sue opere, tradotte in oltre cinquanta lingue e pubblicate in più di quaranta Paesi, supera i settecento milioni di copie.
Signor Simenon, perché è diventato romanziere?
Perché ho sempre avuto il desiderio di scrivere romanzi. E, certo, non sono l’unico esemplare di questa specie. Per quanto mi riguarda, comunque, è stata quasi una ricerca di me stesso. Ci si mette nella pelle di un personaggio senza avere la minima idea di dove questo ci porterà. Si segue il personaggio giorno per giorno, e solo quando si è arrivati all’ ultimo capitolo si comprende che cosa gli accade. Quando fu chiesto a Balzac: ‘Che cos’è il personaggio di un romanzo?’ , lui rispose: ‘Qualsiasi uomo della strada è un personaggio da romanzo, purché scavi nel fondo di se stesso. Noi tutti, invece, non arriviamo mai a scavare nel fondo di noi stessi…’ . Il romanzo consiste nel creare un gruppo sociale – cinque o sei persone, il numero non ha importanza – intorno a un personaggio centrale; dopo di che all’autore non resta che mettersi nella pelle di questo protagonista.
Attraverso i suoi personaggi, lei ha cercato dunque di compiere una specie di operazione psicoanalitica?
Pressappoco. Voglio dire che ho tentato di capire se quel tipo di uomo avrebbe reagito in un certo modo piuttosto che in un altro. E mi creda, non c’era bisogno di dargli una spinta. Fino all’ultimo capitolo, io non sapevo come il romanzo sarebbe andato a finire: il protagonista seguiva una logica che non era la mia. Io vivevo la sua crisi; ed era una fatica estenuante. E’ questo il motivo per cui ho smesso di scrivere.
Prendiamo il suo personaggio favorito: Maigret. Forse perché ha finito con l’assomigliarle – o il contrario, Maigret manifesta una certa concezione del mondo e dei contatti umani che sembrano essere suoi.
All’ inizio Maigret era piuttosto semplice: un omaccione mite, che credeva anche lui nell’istinto più che nell’intelligenza o nelle impronte digitali o in altre tecniche poliziesche. Ne faceva uso perché vi era costretto, ma senza farci troppo affidamento. A poco a poco, abbiamo finito effettivamente con il somigliarci. Non saprei dire se è stato lui che si è avvicinato a me, o io a lui. Certo è che io ho preso alcuni dei suoi vizi e lui ha preso alcuni dei miei. Per esempio, ci si è spesso domandati perché Maigret non avesse figli, lui che li desiderava tanto. E’ questo il suo grande rimpianto. Ebbene, la cosa è dovuta al fatto che, quando cominciai a scrivere le storie di Maigret – devo averne scritte almeno una trentina, prima di diventare padre – la mia prima moglie non voleva avere figli. Mi aveva fatto giurare, prima che ci sposassimo, che non ne avremmo avuti. Io ne soffrivo molto, perché adoro i bambini, proprio come Maigret. Perciò non potevo raccontare di Maigret che torna a casa con due bambini che lo aspettano. Cosa avrebbe detto ai figli, come avrebbe reagito alle loro grida, come avrebbe dato loro il biberon di notte, nel caso che la signora Maigret fosse stata indisposta? Lo ignoravo. Di conseguenza, ho dovuto creare una coppia che non poteva avere figli.
Maigret ha un modo di interessarsi alla gente che somiglia al suo. Una certa capacità di simpatia, che in un poliziotto è insolita.
E’ vero. E’ uno dei pochi personaggi da me creati, se non l’unico, che abbia dei tratti in comune con me. Tutti gli altri, o quasi tutti, non hanno nulla a che fare con ciò che io sono.
Si ha però la sensazione che Maigret non creda molto nella giustizia, che per lui non vi siano colpevoli, ma solo vittime.
Io non credo che ci siano dei colpevoli. L’uomo è talmente disarmato nell’affrontare la vita, che giudicarlo colpevole significa quasi farne un superuomo… Non a caso la mafia è nata in America nel settore più povero di New York, a Brooklyn. Per la strada, tra i ragazzini che cominciavano ad azzuffarsi tra loro. Quando si prendono delle coltellate a nove o a undici anni, cosa vuole che si diventi in seguito? Un bandito, naturalmente.
Vi sono messaggi coscienti, nella sua opera?
In tutta franchezza, io ho tentato di creare dei personaggi; e, facendolo, ho anche tentato di comprendere un po’ meglio gli uomini. Nella maggior parte dei casi, tuttavia, è dai critici che ho appreso ciò che avevo voluto dire. Scrivendo, non ne ero consapevole. D’altronde quando scrivevo ero in un tale stato! Buttavo giù un capitolo di venti pagine in circa due ore, perdendo otto etti di peso. E’ una cosa che ho verificato: Teresa pesava i miei vestiti prima che io li indossassi. Ebbene, ad ogni seduta perdevo otto decilitri di sudore.
Più di cinque chili a romanzo?
Sì. Poi li recuperavo in meno di un mese. Quando si scrive in questo modo, non si pensa ad esprimere delle idee, si pensa solo ad accompagnare il proprio personaggio, a restare ‘in stato di grazia’ , vale a dire in uno stato di completa vacuità rispetto a se stessi, per poter essere ‘l’altro’ . All’inizio, riuscivo a resistere in queste condizioni per undici giorni; poi per dieci, per nove, e alla fine per sette giorni. Se i miei romanzi hanno finito con l’ essere scritti in sette giorni, è stato perché non ero capace di resistere più a lungo.
Lei è quindi il romanziere del subcosciente?
Mi è appena passata per la mente una specie di boutade. Lei mi ha chiesto per quale ragione sono diventato scrittore. Dopo aver parlato dell’intelligenza, della coscienza e del subcosciente, mi viene quasi voglia di risponderle che forse ho scritto perché fin dalla più tenera infanzia sono stato sonnambulo. Da bambino avevo delle sbarre alla finestra perché ogni tanto, di notte, venivo ritrovato in pigiama all’angolo della strada. Talvolta mi accadeva di alzarmi durante la notte per rifare i compiti che avevo già fatto in serata. E sonnambulo sono ancora oggi. Non voglio dormire da solo. Non posso dormire senza sorveglianza.
I suoi personaggi non amano comunicare. Parlano poco tra loro, si spiegano poco, si comprendono senza ricorrere alle parole. Come se le temessero.
E’ vero. Le parole non hanno lo stesso valore. Perciò io impiego così poche parole nei miei romanzi – non più di duemila – benché ne conosca certamente qualcuna di più.
Perché?
Secondo le statistiche, vent’anni orsono un contadino francese utilizzava per esprimersi una media di seicento parole. Gli impiegati e gli artigiani delle piccole città usavano fra le ottocento e le milleduecento parole. La piccola borghesia arrivava a una media di millecinquecento; solo le persone dotate di una certa cultura disponevano di un vocabolario di duemila-duemilacinquecento parole. Più parole vengono utilizzate in un romanzo o in qualsiasi altro testo, meno probabilità si hanno di essere compresi, o almeno di essere compresi nel modo giusto. Non esistono due persone che leggano uno stesso romanzo nello stesso modo. Le risonanze di ogni singola parola sono diverse a seconda dei lettori. Tanto vale, dunque, ricorrere al minor numero possibile di parole e soprattutto al minor numero possibile di parole astratte. Fin dall’ inizio mi sono imposto di scrivere, per quanto è possibile, utilizzando parole concrete. Tutti sanno che cosa è un tavolo. Un letto è un letto, una nuvola una nuvola. Impiegando invece termini come “sublime” o come “esteriorizzazione” – parole astratte – la comprensione sarà diversa secondo le categorie dei lettori. Probabilmente è per questa ragione che i miei libri sono stati tradotti in un centinaio di lingue. Personaggi concreti, che non raccontano i propri stati d’ animo ma che agiscono, e dei quali si vedono le azioni e i gesti, sono uguali in tutti i Paesi.
Quali sono stati i libri importanti per la sua vita? gli scrittori che l’ hanno interessato, influenzato?
Sono cresciuto in una pensione familiare, abitata quasi esclusivamente da studenti russi. Perciò ho cominciato con la letteratura russa perfino prima di conoscere quella francese: Gogol, Cechov, Puskin, Dostoevskij, Gorkij prima di Balzac e di Flaubert. In seguito mi sono appassionato a Dickens e a Conrad. Infine, ho letto Balzac e gli scrittori francesi dell’ Ottocento. Prima ancora, comunque, da bravo studente, mi ero applicato seriamente ai classici.
E tra gli scrittori più noti in Francia, come Stevenson?
Per me Stevenson è un grande scrittore. Quando abitavo negli Stati Uniti, sulla costa del Pacifico, andai a visitare la casa da cui lui si imbarcò per le isole, a Monterey. Presso le tribù primitive ci sono i cantastorie; ne esistono anche nelle isole del Pacifico. Quando Stevenson se ne andò a morire, giovanissimo, a Samoa – era tisico – scrisse: “Gli indigeni mi hanno conferito il titolo più ambìto che io abbia mai ricevuto: mi chiamano il cantastorie”.
Quali sono i libri di Stevenson che lei preferisce?
L’ isola del tesoro, naturalmente. C’ è però anche un altro libro, meno noto: una storia di spionaggio che ha inizio nel retrobottega di un tabaccaio, Il dinamitardo. E’ un libro straordinario. Quel retrobottega di tabaccheria è uno dei ricordi più remoti della mia infanzia.
E qual è il suo scrittore preferito?
Il più grande scrittore del secolo scorso: Gogol. Il più grande scrittore del nostro secolo: Faulkner.
Fonte: “La Repubblica” , maggio 1985