SIRI HUSTVEDT
Quello che ho amato (titolo originale: What I loved, 2003)
Il romanzo è la voce narrante di Leo Hertzberg, critico d’arte e professore universitario che racconta gli ultimi vent’anni della sua vita in un lungo flashback, una storia segnata dal disperdersi delle persone amate e dal perdurare degli affetti, come esprime bene il titolo del romanzo.
Tutto ha inizio quando il critico d’arte s’imbatte nel quadro di Bill Wechsler dal titolo “Autoritratto”, che in maniera del tutto incongruente ritrae una donna. Sul corpo nudo della figura femminile s’intravede un’ombra che al primo sguardo può essere confusa con quella dell’osservatore e invece è parte del disegno: è l’ombra del pittore. A lato è ritratta una caviglia di donna con mocassino, che imbocca una porta ed esce di scena. Incuriosito e affascinato dalla tela, Leo l’acquista e decide di incontrare l’autore. Tra i due nasce una profonda amicizia accomunata dalla grande passione per l’arte e che andrà oltre il rapporto professionale.
Leo e Bill scelgono di stabilirsi nello stesso condominio newyorkese, lasciando che le loro vite siano separate da una rampa di scale, i due appartamenti idealmente fusi in un unico spazio, un sodalizio di menti e di anime che si traduce in condivisione di ciò che si possiede e si ama.
Il racconto è dunque la storia di due famiglie: Erica, moglie di Leo, Lucille, moglie di Bill (che lui lascerà in seguito per Violet, la modella della tela) e i due bambini, Mark e Matthew, nati a poche settimane di distanza e destinati a perpetuare l’amicizia che lega i rispettivi genitori.
L’atmosfera cameratesca e spensierata si rompe improvvisamente, a seguito di una straziante tragedia. Nulla sarà più lo stesso. Quando successivamente il giovane e ribelle Mark inizia a frequentare Teddy Giles, un ambiguo artista newyorkese che ha fatto della violenza il cardine sua arte, la narrazione vira di tono e diventa quasi un noir, l’armonia è soppiantata da crudeltà, ferocia, menzogna, atmosfere trasgressive e ripugnanti che mi hanno ricordato Chuck Palahniuk.
Il romanzo è molto di più di una vicenda familiare, è un mosaico di temi, a mio avviso assemblati in modo fluido e coerente, senza cadute di ritmo. Ci sono i saggi scritti da Leo e le sue lezioni universitarie, le creazioni di Bill in continuo divenire, i suoi progetti artistici descritti nei minimi dettagli; ci sono dissertazioni sul valore intrinseco dell’arte e il valore commercialiale delle opere, ci sono gli studi e gli scritti di Violet sull’isteria e gli articoli su pazienti afflitte da turbe e disturbi alimentari; c’è la quotidianità dei due bambini, che crescono nella famiglia allargata dove genitori e “zii” si occupano della loro crescita ed educazione.
La sensibilità pittorica e artistica della scrittrice permea l’intero romanzo, le nozioni sono profuse in quantità senza essere pretenziose e la prosa delicata ed elegante ben si sposa con il mondo dell’arte e l’ambiente di una New York colta e benestante.
Tra le righe mi è sembrato di riconoscere i temi cari a Paul Auster, scrittore di cui ho letto molto, nonché marito della Hustvedt: il potere terapeutico dei ricordi e l’idea che è pura illusione credere di avere un controllo degli eventi: l’individuo non ha potere alcuno sulla propria vita né sulla propria felicità, mero frutto di coincidenze e casualità.
Il romanzo mi ha coinvolto fin dalle prime pagine e a mio parere, nonostante la polifonia di argomenti trattati, il suo fulcro è e rimane l’indagine della sfera emotiva che ruota intorno al tema della perdita, intesa sia come scomparsa fisica, sia come allontanamento forzoso dalle persone amate. La forza di questa storia risiede nell’accurata analisi della psicologia dei personaggi che annaspano alla ricerca dell’azione giusta da compiere per contrastare l’infausta sorte, e nelle profonde riflessioni intorno alle tante domande che non trovano risposte. E quel dolore muto, che diventa quasi insostenibile, potrà essere mitigato soltanto dal naturale distacco operato dal tempo.