La letteratura del tè: dove fumano le tazze

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Dite la verità, con il crollo delle temperature e le giornate che si accorciano a vista d’occhio, non vediamo l’ora di ritrovarci seduti in poltrona o sul comodo divano, con libro e tisana calda.

L’abbinamento libro e tisana è ormai un classico, le tisane hanno preso piede anche da noi, a base di estratti naturali sfruttano le preziose proprietà delle piante. Ce ne sono per tutti i gusti, pronte in bustine o sfuse, da preparare in tazze con filtro ma –fatemi dire – la bevanda calda per eccellenza è sempre stata il tè, tanto da diventare “rito” e consacrare un intero momento della giornata che è “l’ora del tè”.

In Europa il tè arrivò piuttosto tardi, grazie ai commerci delle Compagnia delle Indie Orientali, furono gli olandesi, per primi a portarlo in patria, nel 1600 circa, ma ci vollero parecchi decenni perché la bevanda si diffondesse ed entrasse a far parte del quotidiano.

La tazza di tè, da semplice bevanda calda, finì per essere accompagnata da pane, burro e dolciumi, da gustare in salotto con amici e amiche tra gossip e chiacchierate, oltrepassando la dimensione privata e diventando evento pubblico e costume di una società.

Nei romanzi, soprattutto classici (e non solo inglesi), s’incontrano spesso i protagonisti con tazze di tè fumanti in mano. Mi sono divertita a rintracciare alcuni brani suggestivi nei libri che ho letto, per condividerli con voi. Ho subito orientato la ricerca verso gli autori decadenti – Wilde, Huysmans, D’Annunzio –  che hanno celebrato il culto della bellezza. L’esteta ama circondarsi di oggetti raffinati, e cosa c’è di meglio di un servizio di tazze in porcellana finissima, impreziosito da decori in oro?

Parto da “Il piacere” di Gabriele D’Annunzio, perché già nell’incipit si fa menzione di tazze da tè. Sentite qua:

Andrea Sperelli aspettava nelle sue stanze un’amante. Tutte le cose a torno rivelavano infatti una special cura d’amore. Il legno di ginepro ardeva nel caminetto e la piccola tavola del tè era pronta, con tazze e sottocoppe in maiolica di Castel Durante ornate d’istoriette mitologiche da Luzio Dolci, antiche forme d’inimitabile grazia, ove sotto le figure erano scritti in carattere corsivo a zàffara nera esametri d’Ovidio.

Riuscite a immaginare la raffinatezza dell’ambiente, la suggestione della fiamma, il profumo di ginepro che si spande per la stanza, il piccolo tavolo accuratamente apparecchiato e l’agitazione del protagonista in attesa?  Sì? Bene, era questo l’intento. D’Annunzio in questo romanzo utilizza il tè nei giochi di seduzione del suo protagonista. Ho scelto due passi che si riferiscono a incontri diversi del conte Andrea Sperelli con le due donne amate: Elena e Maria.

[Elena]
Accese la lampada sotto il vaso dell’acqua; aprì la scatola di lacca, dov’era conservato il tè, e mise nella porcellana una quantità misurata d’aroma; poi preparò due tazze. I suoi gesti erano lenti e un poco irresoluti, le sue mani bianche e purissime avevano nel muoversi una leggerezza quasi di farfalle…
(Da Il Piacere, Libro 1, capitolo 1)

[Maria]
-Ti farò il tè- disse.
Egli s’accendeva, vedendola sul divano, tra i cuscini […] Parlava d’un tè prezioso, giuntole da Calcutta, ch’ella aveva donato ad Andrea il giorno innanzi. […]
-Senti?- esclamò Maria, versando su le foglie aromatiche l’acqua bollente.
Un profumo acuto si spandeva nell’aria, col vapore. Andrea l’aspirò. Poi disse, chiudendo gli occhi rovesciando indietro il capo:
-Baciami.
E, appena ebbe il contatto delle labbra, trasalì tanto forte che Maria ne fu sorpresa.
Ella versò in una tazza la bevanda e gliela offerse, con un sorriso misterioso.
-Bada. C’è un filtro.
Egli rifiutò l’offerta.
-Perché?
-Dammi tu… da bere.
(Da Il piacere, Libro IV, capitolo 1)

I due passi esprimono bene il potere di seduzione dell’“ora del tè”: Elena mette in luce la sua dolcezza nell’offrire il tè all’uomo, Maria gioca sulla preziosità del suo tè, che si carica di valenze sensuali e misteriose. In entrambi i casi è interessante notare come servire il tè sembra essere una mansione prettamente femminile, da svolgere sotto gli occhi dell’uomo che osserva.

Con un bel salto ci tuffiamo nella Londra vittoriana di fine Ottocento, per incontrare Dorian Gray, giovane di eccezionale bellezza. In continua ricerca di sensazioni rare e squisite, ama circondarsi di oggetti preziosi e fare di ogni azione – fosse anche il semplice bere una tazza di tè – un capolavoro artistico.

[…] il cameriere entrò con il vassoio del tè e lo posò sul tavolino giapponese. Si udì un tintinnare di tazze e di piattini e il sibilo flautato di un samovar georgiano. Un paggio portava due coppe cinesi. Dorian Gray si alzò e versò il tè .
(Oscar Wilde, Il ritratto di Dorian Grey)

Rimanendo in Inghilterra, mi sento obbligata a citare Virginia Woolf che considerava l’ora del tè un momento speciale e irrinunciabile della giornata. Nei diari che tenne tra il 1925 e il 1930 (e che vi ho già consigliato) l’ora del tè viene citato moltissime volte. La Woolf era solita dedicarsi alla scrittura dopo aver preso il tè, rito quotidiano che annota distrattamente nel metodico racconto delle sue giornate:

Questo è un libro, penso di averlo già detto, che scrivo dopo il tè..

Qui devo decidere prima di tutto di trovarmi un bel libro lungo da leggere. Quale? Tristram Shandy? Un memorialista francese? Questo dopo una discussione con Angus durante il tè.

Prima devo scrivere alcuni brevi racconti, e lasciare che To the Lighthouse (Gita al faro ndr) cuocia a fuoco lento, aggiungendoci qualcosa tra il tè e la cena […]

Dottie (che viene a prendere il tè con grande semplicità, ma poi resta un po’ troppo a lungo) sta investendo le sue £ 200 all’anno in Stella Gibbons ecc. e mi presta le sue poesie che io puntualmente butto giù per il gabinetto.

Raymond è venuto per il tè- due ore di conversazione animata, ammirevole, leggera, vivace e gustosa, più sui fatti che non sulle persone: i fantasmi; la coscienza; i romanzi. Si fa fare le camicie con un tessuto fantasia da tovaglie, luccicante, rigido.
(Virginia Woolf, Diari 1925-1930)

Chiusa la parentesi Woolf, mi sposto altrove, per affermare come la tradizione del tè delle cinque non sia esclusivo costume dei londinesi, e ve lo dimostro con un celebre passo di Marcel Proust, tratto dalla sua “Recherche”.

Erano già parecchi anni che tutto quanto di Combray non costituiva il teatro e il dramma del mio andare a letto aveva smesso di esistere per me, quando, un giorno d’inverno, al ritorno a casa, mia madre, vedendomi infreddolito, mi propose di bere, contrariamente alla mia abitudine, una tazza di tè. Dapprima rifiutai, poi, non so perché, cambiai idea. Mandò a prendere uno di quei dolci corti paffuti che chiamano Petites Madeleindes e che sembrano modellati dentro la valva scanalata di una “cappasanta”. E subito, meccanicamente, oppresso dalla giornata uggiosa e dalla prospettiva di un domani malinconico, mi portai alle labbra un cucchiaino di tè nel quale avevo lasciato che s’ammorbidisse un pezzetto di madeleine. Ma nello stesso istante in cui il liquido al quale erano mischiate le briciole del dolce raggiunse il mio palato, io trasalii, attratto da qualcosa di straordinario che accadeva dentro di me. […]
(Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto: Dalla parte di Swann, Combray)

Una cascata di ricordi riemerge dalla memoria del giovane Marcel grazie al sapore del pasticcino burroso. I sensi dell’olfatto e del gusto sono i più “sentimentali”, le neuroscienze confermano la loro capacità di stimolare i centri della memoria a lungo termine.

Mi piace chiudere questo articolo dal profumo speziato con una scena tratta da “Alice nel paese delle meraviglie” di Lewis Carroll, impressa nelle nostre menti grazie alla potenza del cartoon disneyano che ha fatto diventare il romanzo una storia per bambini (ma noi adulti sappiamo bene come sia in realtà una denuncia della politica colonialista inglese):

C’era un tavolo apparecchiato sotto un albero davanti alla casa, e la Lepre Marzolina e il Cappellaio vi prendevano il tè: tra loro c’era un Ghiro profondamente addormentato, e se ne servivano come di un cuscino appoggiandovi i gomiti e parlando sopra il suo capo.
[…] Il tavolo era grande, ma i tre stavano pigiati in un angolo. “Non c’è posto! Non c’è posto!” si misero a gridare quando videro Alice farsi avanti.
“Ce n’è moltissimo invece!” disse Alice indignata, e si sedette in una grande poltrona a capotavola.
“Prendi un po’ di vino”, disse la Lepre Marzolina in tono incoraggiante.
Alice si guardò intorno dappertutto, ma non vide altro che tè.
(Lewis Carroll, Alice nel paese delle meraviglie 1865)

Ecco, io ho finito e indovinate un po’ cosa faccio adesso? Esatto, vado a prepararmi una buona tazza di tè, il mio preferito è quello al gelsomino. Ho fatto venire voglia anche a voi?

Buona lettura e alla prossima

Fabiola

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